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Testimonianza di mons. Giuseppe Rocco

Chi vi parla ha trascorso con don Francesco le ultime ore della sua vita ed ha atteso per anni con fiducia, anzi con certezza, che la Chiesa lo proclamasse martire e beato. E ha provato nel silenzio del cuore una gioia immensa quando si è realizzato questo dono. Infatti l’iter per il riconoscimento del suo martirio, iniziato a Trieste nel 1956, è stato lungo e travagliato; fu sospeso un anno dopo perché il Governo comunista di Tito aveva rotto, senza motivo, improvvisamente, le relazioni diplomatiche con la Santa Sede. Ed era in atto inoltre il contenzioso per i confini di Stato tra Italia e Jugoslavia. Si dovette tener conto anche delle ostilità del luogo dove viveva don Bonifacio, erano minacciati di gravi rappresaglie gli abitanti di quel luogo e chi si fosse arrischiato di dare notizie della sua morte veniva additato per essere ancora di più perseguitato. Il processo fu ripreso nel 1975, era iniziato a delinearsi un riavvicinamento tra il Vaticano e la Repubblica jugoslava per la disgregazione dello Stato jugoslavo che diede origine, dopo feroci guerre, alle nuove Repubbliche della ex Jugoslavia.

Questo era il clima di quel periodo. La Congregazione per le cause dei santi consigliò prudenza e silenzio. L’autorizzazione per la continuazione della procedura del processo fu concessa nel 1995. La documentazione delle numerose testimonianze fu trasmessa alla Congregazione nel 1998. Le severe commissioni per l’esame degli atti le ritennero valide con la dichiarazione unanime che il presbitero Francesco Bonifacio poteva essere riconosciuto Beato perché sacerdote in odium fidei. Il Papa Benedetto ne firmò il decreto il 3 luglio 2008 e, aderendo alla supplica del vescovo di Trieste, concesse che il sacro rito venisse celebrato nella cattedrale di San Giusto. Il 4 ottobre il prefetto della Congregazione per le cause dei santi diede lettura della Bolla pontifica con la quale il Papa proclamava il sacerdote Francesco Bonifacio martire e beato e stabiliva che la sua memoria venisse celebrata in tutta la Chiesa l’11 settembre di ogni ano; è la data della sua scomparsa.

Ogni santo, ogni martire infatti, è nella Chiesa e per la Chiesa un segno dell’infinita e inesauribile santità di Dio, è un testimone autentico del suo amore. Spetta quindi a noi, sacerdoti, adulti, giovani, famiglie, comunità, scoprire la perenne presenza di Dio nella nostra terra, attraverso la via che lo Spirito ha voluto indicare al Beato martire. Ma da lontano, fin dalla sua fanciullezza, dalla sua famiglia, egli poi nella sua giovinezza, la delineerà in modo consapevole. Nel suo diario segreto scrive in italiano ma con lettere dell’alfabeto greco, scritto in questi termini: «Omnia cum Deo, in Deo, pro Deo», vivere in profonda comunione con il Signore, nulla anteponendo alla conoscenza, per vivere di Lui, in Lui, con Lui. Questo programma di don Francesco Bonifacio esprimere la radicalità del Vangelo che egli ha vissuto, amato, comunicato nel suo ministero sacerdotale e pastorale. Oggi lo offre a noi con la freschezza della santità che non conosce l’usura del tempo e che non lascia adito ad interpretazioni estemporanee. Il segreto della via dello Spirito di don Francesco va ricercata nella saldezza della sua vita interiore. La sua fede incrollabile derivava dall’amore di Dio e dal suo desiderio di poterlo donare.

Il beato martire nasce il 7 settembre 1912 a Pirano, splendida cittadina della costa istriana che conserva con le sue calli, con le sue case, con le sue chiese, con la sua storia la memoria della civiltà della grande madre Venezia.

La famiglia è semplice, numerosa, povera. Don Francesco è il secondo di sette fratelli. Il padre, fuochista dei vaporetti che collegavano Trieste alle cittadine istriane, muore in giovane età. La responsabilità di allevare e di educare i figli ricade sulla madre ma anche di far quadrare le insufficienti entrate famigliare, presso qualche servizio prestato a famiglie benestanti. «C’era tanta fame», ricorda il fratello Giovanni, ancora vivente. Una benefattrice e la carità de i frati conventuali della vicina chiesa di San Francesco contribuivano ad alleviare le disagiate condizione economiche. Questa chiesa è il centro della vita religiosa della famiglia; la mamma inizia ogni giornata con la prima santa messa, quella delle sei. Il piccolo Francesco le chiede spesso di accompagnarla. Qui viene preparato ai sacramenti e istruito al servizio dell’altare. Di natura è mite, ma non inibita e insicura, obbedisce per scelta non per passività, la sua pratica religiosa è lineare, tradizionale, non bigotta e tradizionale, confessione settimanale, frequenza alla santa Comunione, alle riunioni dell’Azione cattolica; è aiutato anche dalla frequentazione di un clero locale serio e motivato. La salute è malferma, lo tormenta l’asma, un’asma bronchiale che lo affliggerà aggravandosi per tutta la sua breve vita.

In questo contesto don Francesco avverte la sua vocazione al sacerdozio. Entra nel seminario interdiocesano di Capodistria nel 1924, a 12 anni. Si inserisce agevolmente nella rigida vita del Seminario, ne accetta le regole, assolve talvolta con fatica il severo ciclo degli studi ginnasiali e liceali. Durante i temutissimi scrutini, quando il collegio degli insegnanti – quasi tutti laici – passa ad esaminare il rendimento scolastico del seminarista Bonifacio, più di uno esclama: “questo è un santo ragazzo”. Anche nell’ambiente del seminario egli passa per el santin, un piccolo santo.

Nel 1932, compiuti gli studi liceali, frequenta l’antico e austero seminario centrale di Gorizia. Accanto alla fedeltà assidua al dovere quotidiano, coltiva lo spirito di fraterna collegialità senza turbarsi, tanto meno immischiarsi , nelle questioni nazionalistiche di quel tempo.

Utilizza parte del tempo della ricreazione per superare le difficoltà dello studio, spesso va in chiesa a pregare davanti al Tabernacolo, sempre sorridente. Vive in un equilibrio interiore non comune, con la consapevolezza di uno stato di vita scelto e amato che egli vede allontanarsi a causa dell’aggravamento dell’asma bronchiale, che qualche medico, forse troppo scrupoloso, considera inizio di tubercolosi. Viene ricoverato in sanatorio. Nel suo diario segreto annota: “Accetto la volontà di Dio ma se dovessi morire prima di diventare sacerdote, il Signore sa che morirò con il desiderio di diventare suo sacerdote”. Si riebbe e trascorse l’ultimo periodo del quadriennio teologico nel seminario di Capodistria come prefetto di disciplina e assistente di dormitorio, così si diceva allora, ma in realtà per assicurargli un nutrimento più adeguato.

Divenne amico di tanti giovani seminaristi. Si erano subito accorti che egli era talmente buono e mite da scoraggiare ogni tentativo di farlo spazientire. La sua mitezza attestata da una testimonianza era quasi visualizzata nei suoi occhi cerulei e limpidi.

Ricevette l’ordinazione sacerdotale il 26 dicembre 1936 nella cattedrale di San Giusto dove verrà proclamato martire beato il 4 ottobre 2008. Celebrò la sua prima santa messa solenne nell’antico duomo di Pirano. Quanti lo conoscevano prima dell’ordinazione, notarono sul suo volto quasi una trasformazione fisica, che suscitava richiamo a Dio ed esercitava fascino.

Dopo qualche mese dell’ordinazione sacerdotale, don Francesco Bonifacio viene inviato a Cittanova, altra cittadina della costa istriana, quale coadiutore del parroco. Il suo primo impatto con la gente è positivo, i giovani in particolare, si sentono compresi. Con loro è affabile, gentile nel parlare,   sempre disponibile ma anche forte e fermo quando doveva correggerli. “Ha il Vangelo sulla labbra e nel cuore», attesta un giovane di Azione cattolica, ma il suo interesse per i giovani non lo distoglie dagli altri destinatari. Va per la riva e si ferma con i pescatori, visita gli ammalati, gli agricoltori, i casolari delle campagne; porta qualche aiuto ai poveri. Il suo confessionale è assediato dai lavoratoti della campagna, dalla gente di mare, dai giovani. Spesso si sente dire: «Abbiamo tra noi un santo prete”. A Cittanova rimane soltanto due anni ma “sembra sia rimasto una vita”, afferma uno dei giovani, e nel suo diario segreto, don Francesco dà questo giudizio: “popolazione in generale buona, generosa, sapendola prendere per il suo verso, amalgamabile”. A Cittanova rimane soltanto due anni e viene trasferito a Villa Gardossi, una curazia del retroterra istriano senza sacerdote da anni, dipendente dalla parrocchia di Buie, grosso paesotto dell’alta Istria. E’ un duro colpo per don Francesco e, a proposito dell’inaspettato trasferimento, scrive nel suo diario: “Quando lo star qui sarà di pregiudizio alla mia salute lo farò presente al mio superiore ma ora questa è la volontà di Dio, rimanere a Villa Gardossi”.

La curazia di Villa Gardossi di circa 1300 anime, non è un paese, è costituita o era costituita da tante piccole frazioni, casolari, sparsi a semicerchio sulle fertili colline della campagna istriana. La canonica è spaziosa ma senza i servizi più elementari: manca la corrente, bisogna attingere l’acqua all’aperto ad una fontana pubblica, il tetto rovinato è da riparare. La mamma e il fratello che l’avevano accompagnato rimangono sbigottiti; nelle vicinanze della canonica sorgono tre case abitate e la chiesetta di Santo Stefano con la torre campanaria quadrata, un tempo torre di vedetta, e sul retro il piccolo cimitero. Don Francesco incoraggia i suoi familiari: «Siate sereni come lo sono io; questa è la volontà di Dio», è la sua continua frase. Inizia subito il suo impegno pastorale che si estende a tutta la realtà della curazia; i primi destinatari sono i giovani, i bambini, i poveri, gli ammalati. Attiva un insegnamento regolare, sistematico di catechesi, costituisce il piccolo clero, un piccolo coro, una piccola biblioteca, una filodrammatica, novità per Villa Gardossi. Fonda l’Azione cattolica iniziando dai più piccoli, dalle beniamine e poi con le giovani e con i giovani. Propone agli aderenti una formazione umana e cristiana ma seria, esigente, con meditazione, vita sacramentale; orienta anche alcuni all’impegno temporaneo dal voto di castità. Credeva alla beatitudine del Vangelo: «Beati i puri di cuore». Le omelie, raccolte in un ventina di grossi quaderni, dimostrano che la sua predicazione è disadorna ma efficace e ricca di esempi, paragoni presi dal vivo che piacciono ai fedeli. “La catechesi domenicale è come una mini teologia presentata», scrive don Francesco, «da popolano a popolani, che deve lasciare un segno. Poco o nulla”, dice, “vale predicare se io non dimostro di praticare la Parola di Dio. L’attività non sempre significa apostolato santo, la predicazione richiede sacrificio, va preparata bene senza ricopiarla da testi o riviste; si è troppo miseri se si dimostra di non voler faticare. La Parola di Dio va studiata, assimilata, prima di proclamarla ; io sono chiamato ad essere uomo di Dio, come uomo, come cristiano, come sacerdote, sono prediletto da Dio per poter essere ostensorio della sua santità”.

Guida dei ragazzi, dei giovani, delle famiglie, dei bambini, “cerco di raccoglierli tutti nel mio cuore”. Sembra di ascoltare in questo sacerdote il santo curato d’Ars. Un sacerdote suo amico ha lasciato la seguente testimonianza, alcuni mesi prima della sua scomparsa: “Oggi mi sono fermato a pensare a don Francesco, carissimo condiscepolo, gemma della Chiesa istriana, oggi voglio rivivere spiritualmente alcune ore trascorse con lui, rievocando fatti, e colloqui della mia ultima permanenza con lui, in quei due giorni quando mi chiamò a predicare in occasione del tesseramento degli iscritti di Azione cattolica e i turni di adorazione nella sua chiesa. Quel sacerdote era un santo e aveva il merito di non farlo capire, tanto era privo di doti appariscenti, dimesso, modesto, umile con tutti, uomo di orazione , di penitenza, fedele alla Chiesa, al Papa, al Vescovo. Aveva preso sul serio il suo sacerdozio. Portava sulle carni il cilicio. Era convinto che le anime si salvano per grazia di Dio ma pagando di persona, con la preghiera, l’opera e l’esempio nostro. Un’anima bella, generosa, temprata dalle ristrettezze familiari, dalla malattia, adorno di autentiche virtù. Albergava in un corpo minuto, gracile in apparenza, ma dal quale richiedeva obbedienza e sforzo diuturno che sarebbero stati propri a persona robusta. Me lo vedo ancora davanti agli occhi sofferente di bronchite, forse di polmoni, ma con lo sguardo raggiante quando la sua asma cronica lo bloccava improvvisamente e restava ansante, un po’ a bocca aperta, interrompendo quel suo parlare rapido, di tono basso, a mezza frase, perché il respiro mozzo gli impediva di progredire. Allora sorrideva senza perdere quell’aria beata di eterno fanciullo che era l’involucro del suo cuore”. Così il suo amico.

Per don Bonifacio la vita spirituale ha un ritmo esatto, regolare, si sviluppa secondo precise sottolineature praticate con costanza, sistematicità «ed anche con rigore, oggi difficile da comprendere e forse più difficile da praticare.

Ma nell’Istria era iniziato dopo l’armistizio del 1943 un periodo che durerà per diversi anni, che si fa sentire anche nella curazia di Villa Gardossi, periodo di vendette, di violenza, di odio, di uccisioni. Le foibe diventano per molti la macabra terrorizzante realtà, per altri persecuzione e minacce, mentre si profila l’incubo di dover lasciare la propria terra e affrontare l’esilio, ignoto e triste, come poi è avvenuto, con l’esodo dall’Istria e da altre regioni della nostra gente.

L’Amministrazione jugoslava di Tito, con tutto il bagaglio teorico e pratico del comunismo ateo sovietico, con la persecuzione contro la Chiesa, contro i sacerdoti, contro i fedeli, si fa sentire anche nel luogo dove vive don Francesco e scrive: “Il mondo attorno a me è come un edificio senza base, tanti uomini hanno nel cuore rancore, vendetta. Mi pare proprio impossibile che la libertà venga proprio dai nuovi liberatori del popolo, da coloro che un tempo si professavano credenti. Da questi falsi profeti noi siamo circondati”. Per i compaesani egli interpreta teologicamente la storia: “Dio non è l’autore del male. E quanto avviene di malvagio avviene nel mondo per opera dell’uomo intristito dal peccato”.

La fermezza di don Francesco, la sua dedizione, il suo prestigio sono avvertite dalle comunità popolari istituite in quel tempo dai comunisti di Tito, sono avvertiti come un ostacolo da eliminare. Egli è un prete scomodo di cui si parla continuamente nelle riunioni del partito comunista locale. Don Francesco ne è consapevole. Il pensiero della morte lo accompagna con insistenza. Scrive nel suo diario segreto: “La morte sopraggiungerà anche per me, ma non molto tardi. Aspetto che suoni la mia ora, non so se arriverò ancora a fare un po’ di bene. Devo prepararmi. Dove morirò? Quando morirò? Il Signore domanda anche il martirio; come si presenterà lo scrivente davanti all’eternità? Ma tutto tende a Dio. Egli domanda anche il sangue e la vita. I tempi difficili richiedono di essere eroici fino al martirio. Chi non ha il coraggio di morire per la propria fede non è degno di professarla. Io morirò martire”, si confida con un giovane di Azione cattolica. Era forse il presagio di quanto l’attendeva. Il Signore lo ha esaudito.

Il pomeriggio dell’11 settembre venne a Grisignana per incontrarmi. Ero sacerdote da poco più di un anno. Il vescovo mons. Antonio Santin mi aveva inviato per sostituire il parroco che si era allontanato dalla parrocchia di notte per evitare l’arresto. Don Francesco venne per incoraggiarmi, per esortarmi alla prudenza ma di non dimostrare mai paura. Era venuto per dirmi la sua antica amicizia e assicurarmi della sua preghiera e del suo affetto. Mi disse del suo desiderio di rimanere con la sua gente, qualunque cosa dovesse succedergli, e di essere sereno perché non aveva mai fatto del male a nessuno. Era dispiaciuto di non poter accostarsi alla confessione settimanale come era abituato e di dover avvicinare i fedeli, i pochi fedeli rimasti, soltanto alla domenica. Ci recammo poi in chiesa, l’adorazione davanti al tabernacolo si era un po’ prolungata. Don Francesco ebbe come un sussulto ma io non ne compresi il motivo, ma non era l’asma che lo tormentava in quel momento.

Usciti di chiesa lo accompagnai per una stradina di campagna, ci salutammo fraternamente con la promessa di rivederci presto. Mi raccomandò di ritornare subito in paese, il sole era all’imbrunire della splendida giornata dell’11 settembre 1946. Lo vedo ancora mentre, appoggiato al suo bastone, lentamente si dirigeva verso la sua Villa Gardossi, ma non vi arrivò. Alcuni miliziani della feroce polizia segreta di Tito lo arrestarono. Durante la notte fu gettato, fatto sparire nella foiba, come da testimonianze veridiche anche se non oculari. La foiba profonda circa 150 metri forse custodisce ancora qualche reliquia dei suoi resti.

Questo umile, mite sacerdote, sconosciuto a molti, muore come martire della fede, testimone autentico dell’amore di Dio. Possiamo credere a chi sa morire come lui”, così scriveva alla madre di don Francesco il vescovo mons. Antonio Santin.

Il suo martirio sia non solo una memoria del passato, ma per Trieste, per la nostra terra istriana, ora abbandonata, e per la Chiesa tutta sia segno eloquente della presenza e dell’amore di Dio nel mondo.

Trieste, 19 agosto 2015

 

(Testimonianza resa da mons. Giuseppe Rocco il 27 agosto 2009, nell’ambito dell’anno sacerdotale. Allora aveva 87 anni e 65 anni di sacerdozio)

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